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le sanzioni penali societarie e fallimentari
Ultimo aggiornamento 20/12/2014
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SANZIONI PENALI SOCIETARIE

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I reati societari

Il volto della bancarotta fraudolenta da reato societario è stato modificato sia perché sono mutate tipologia, caratteristiche ed elementi costitutivi dei reati societari richiamati, sia perché talune figure di reato sono state abolite, sia per la previsione di un evento, il dissesto, posto in rapporto di causalità con la commissione dei fatti previsti.

L'espressione bancarotta societaria(1) è ormai entrata nel linguaggio giuridico per contrassegnare i fatti di bancarotta, fraudolenta (art. 223, comma 1) e semplice (art. 224, n. 1), commessi dagli organi d'amministrazione (amministratori e liquidatori), direzione (i soli direttori generali) e controllo (i soli sindaci) delle società dichiarate fallite.

Nel pensiero comune l'espressione designa una sottoclasse della bancarotta impropria(2), vale a dire della bancarotta caratterizzata, quanto al soggetto attivo del reato, dal fatto di essere commessa da persone diverse dal fallito, diverse dall'imprenditore commerciale non piccolo, quanto all'oggetto materiale, dal fatto di riguardare patrimonio e scritture contabili appartenenti a soggetto diverso da quello che ha commesso il reato(3). L'espressione bancarotta societaria si addice, peraltro, anche alle ipotesi di bancarotta fraudolenta e semplice, contemplate rispettivamente dagli artt. 223, comma 2, e 224, n. 2. L'art. 223, comma 2, n. 2, e l'art. 224, n. 2, puniscono, a titolo rispettivamente di bancarotta fraudolenta e bancarotta semplice, gli organi societari sopra indicati che abbiano, con dolo (o per effetto di operazioni dolose) ovvero con inosservanza degli obblighi ad essi imposti dalla legge, cagionato (nella seconda ipotesi anche aggravato) il dissesto della società.

L'art. 223, comma 2, n. 1, punisce, invece, a titolo di bancarotta fraudolenta e con le pene di cui all'art. 216, comma 1, sempre naturalmente che la società sia dichiarata fallita, gli organi societari che abbiano commesso fatti previsti come reati societari da disposizioni del Codice civile.

Quest'ultima disposizione ha costituito oggetto dell'attenzione del legislatore nell'ambito della approvata riforma dei reati societari, voluta dall'art. 11, legge delega 3 ottobre 2001, n. 366 (di seguito, per brevità, legge n. 366/2001)(4) ed attuata dal D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, entrato in vigore lo scorso 16 aprile 2002 (di seguito, D.Lgs. n. 61/2002)(5); l'art. 11, lett. g) , della legge n. 366/2001 delegava a «riformulare le norme sui reati fallimentari che richiamano reati societari, prevedendo che la pena si applichi alle sole condotte integrative di reati societari che abbiano cagionato o concorso a cagionare il dissesto».

La valutazione delle modificazioni apportate alla fisionomia di questo delitto (che d'ora in poi si denominerà bancarotta da reato societario) presuppone alcune considerazioni sulla disposizione previgente, segnatamente sull'interpretazione della medesima affermatasi in giurisprudenza.

La bancarotta da reato societario nel testo previgente

L'art. 223, comma 2, n. 1, nel testo previgente, prevedeva che agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite si applicasse la pena prevista dal comma 1 dell'art. 216(6) qualora avessero commesso «alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 2621, 2622, 2623, 2628, 2630, comma 1, del Codice civile». L'interpretazione giurisprudenziale(7) e, almeno in parte, quella dottrinale(8) escludeva che la disposizione in esame integrasse una circostanza aggravante dei reati societari in essa richiamati e optava per la natura autonoma del reato, confermata dalla ritenuta applicabilità anche a questi fatti di bancarotta della circostanza aggravante di cui all'art. 219, comma 2, n. 1(9).

La dottrina più accreditata considerava la fattispecie di pericolo presunto(10): riteneva, in particolare, presunta l'offesa dei beni giuridici tutelati, segnatamente, l'interesse dei creditori alla salvaguardia dell'integrità del capitale sociale. Altro punto fermo dell'interpretazione dominante consisteva nell'affermare che, ai fini dell'integrazione della bancarotta da reato societario, non era richiesta la sussistenza di un nesso di causalità tra il fatto, contemplato dalle disposizioni del Codice civile richiamate, e il dissesto della società(11).

Era, pertanto, frequente che, a titolo di bancarotta da reato societario, fossero incriminati fatti (in particolare, false comunicazioni sociali) risalenti nel tempo, magari anche attribuibili a soggetti diversi da quelli che, con successive malefatte, avevano determinato l'irreversibile crisi economica della società(12).

Il rischio di criminalizzare comportamenti la cui concreta lesività era assai discutibile, quando non certamente insussistente, non era, peraltro, caratteristica esclusiva della fattispecie in esame.

Anche le altre ipotesi di bancarotta, propria e impropria (con l'esclusione di quelle previste dagli artt. 223, comma 2, n. 2, e 224, n. 2, come si è visto, costruite come reati di evento, rappresentato dal dissesto), non delimitando nel tempo una zona di rischio penale(13), consentivano (e consentono) la perseguibilità di fatti realizzati anche in epoca antecedente all'insorgenza di un concreto pericolo d'insolvenza.

Le norme penali societarie richiamate dalla previgente disposizione fallimentare

È opportuno svolgere alcune considerazioni sulle disposizioni penali societarie richiamate dalla previgente disposizione fallimentare per rendere meno arduo, ora che la riforma del diritto penale societario ha radicalmente mutato il contenuto degli artt. 2621 - 2640 cod. civ., il raffronto con la nuova disposizione introdotta dall'art. 4, D.Lgs. n. 61/2002. Non è questa naturalmente la sede per una completa esegesi delle disposizioni penali societarie elencate nella norma fallimentare(14); lo è, invece, per una rapida rassegna delle medesime (oltre che delle più rilevanti disposizioni penali escluse dal catalogo contenuto nella norma fallimentare) che consenta di individuare i fatti(15) (la cui commissione, in caso di fallimento della società, dava vita all'ipotesi di bancarotta in esame) e i beni giuridici tutelati. La ricognizione dei beni giuridici tutelati dalle singole disposizioni penali societarie rappresenta un passaggio obbligato al fine di verificare la compatibilità dell'innesto nella norma fallimentare, dovendosi ritenere che l'oggettività giuridica originaria del reato societario, se non riconducibile all'interesse patrimoniale dei creditori sociali (e perciò omogenea con l'oggettività giuridica della bancarotta)(16) non vada dispersa, ma dia luogo a un fenomeno di plurioffensività(17).

Non a caso, le critiche più ricorrenti rivolte alla norma incriminatrice della bancarotta da reato societario si addensavano sull'inclusione nell'art. 223, comma 2, n. 1, di disposizioni penali societarie disomogenee rispetto alla lesività del reato fallimentare e sull'esclusione, viceversa, di norme che miravano a tutelare il patrimonio della società, quindi la garanzia dei creditori.

La nuova formulazione della norma incriminatrice ha tenuto conto delle critiche rivolte alla precedente disposizione, curando di richiamare, all'interno della disposizione fallimentare, solo disposizioni penali societarie assimilabili, quanto ai beni giuridici tutelati, alla bancarotta; va anticipato, peraltro, che questo problema, e il conseguente sforzo compiuto dal legislatore per superarlo, ha perso gran parte del suo significato ora che la bancarotta da reato societario è stata trasformata in reato di danno, caratterizzato dalla necessità che la commissione del fatto, previsto dalla disposizione penale societaria richiamata, cagioni, o concorra a cagionare, il dissesto della società. L'art. 223, comma 2, n. 1, richiamava, anzitutto, i fatti previsti dall'art. 2621 cod. civ., disposizione che contemplava tre diverse figure di reato.

Le false comunicazioni sociali

L'art. 2621, n. 1, cod. civ., contemplava come false comunicazioni sociali il fatto dei i promotori, soci fondatori, amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori, i quali nelle relazioni, nei bilanci o in altre comunicazioni sociali, fraudolentemente esponessero fatti non rispondenti al vero sulla costituzione o sulle condizioni economiche della società o nascondessero in tutto o in parte fatti concernenti le condizioni medesime (la fattispecie penale societaria era procedibile d'ufficio e la cornice edittale di pena prevedeva la reclusione da uno a cinque anni e la multa da lire due milioni (1032 euro) a lire venti milioni (10329 euro). L'interpretazione giurisprudenziale(18) aveva ricostruito il reato in chiave plurioffensiva, da un lato, affermando che la norma incriminatrice era posta a tutela di un interesse collettivo alla veridicità e alla completezza delle comunicazioni sociali e di interessi individuali, di natura patrimoniale, riconducibili alla società, ai soci e ai creditori, dall'altro, rilevando come a integrare il reato fosse sufficiente, oltre alla lesione dell'interesse collettivo, il mero pericolo di lesione di anche uno soltanto degli anzidetti interessi patrimoniali.

La tecnica di tutela utilizzata era, secondo il pensiero della giurisprudenza(19), quella del pericolo presunto.

I soggetti attivi del reato

Tra i soggetti attivi del reato erano previsti anche i promotori e i soci fondatori in considerazione del fatto che le comunicazioni sociali incriminabili potevano avere a oggetto fatti concernenti la costituzione della società.

L'oggetto materiale del reato: la nozione di comunicazioni sociali

L'oggetto materiale del reato, ben specificato nel riferimento a relazioni e a bilanci, si dilatava nella omnicomprensiva nozione di comunicazioni sociali, delle quali la giurisprudenza(20) forniva una definizione assai lata, ritenendo tali tutte quelle compiute, in forma scritta od orale, dai soggetti qualificati della società nell'esercizio delle funzioni ad essi attribuite, ricomprendendosi non solo quelle meramente interne destinate ai soci, ma ogni comunicazione anche esterna, diretta ai soci, ai creditori, presenti e futuri, e, in generale, ai terzi interessati.

Un'ampia locuzione, dunque, che, da un lato si era rivelata utile per sopire vacui dibattiti come quello sull'applicabilità della disposizione incriminatrice al bilancio consolidato di gruppo, ma che, dall'altro, si era rivelata fonte di un inaccettabile ampliamento dell'intervento punitivo, oltremodo assicurato dalla tendenza a interpretare in modo estensivo l'espressione fatti concernenti le condizioni economiche.

Le condotte incriminate

Quanto alle condotte incriminate, l'esposizione di fatti non rispondenti al vero era comunemente riferita anche alle valutazioni (ma restava avvolto nelle nebbie dell'incertezza il criterio in forza del quale individuare la falsità delle valutazioni penalmente rilevante) mentre il nascondimento di fatti veri era riferito a qualsivoglia informazione anche se non imposta dalla legge.

In tema di valutazioni non erano previsti scarti tali da consentire alla norma di reprimere solo le falsità significativamente offensive.

In generale, inoltre, la disposizione non era caratterizzata dalla previsione di soglie quantitative di sorta.

L'elemento psicologico

Quanto, infine, all'elemento psicologico, l'avverbio fraudolentemente veniva letto dalla giurisprudenza(21) in termini di rilevanza, su specie di dolo specifico, del mero dolo eventuale, inteso come accettazione del rischio della verificazione di accadimenti lesivi degli interessi individuali tutelati. Le false comunicazioni sociali sono state riproposte dal
D.Lgs. n. 61/2002 e dislocate

nei nuovi artt. 2621 e 2622 cod. civ. (richiamato dal nuovo testo della disposizione fallimentare).

Il fatto è stato oggetto di consistenti interventi specificativi per essere poi sdoppiato tra contravvenzione (art. 2621 cod. civ.) e delitti (art. 2622 cod. civ.) sul crinale del danno patrimoniale del danno cagionato ai soci ed ai creditori (e ulteriormente ripartito in due delitti caratterizzati dalla diversa natura, quotata o non, della società le cui condizioni economiche, patrimoniali e finanziarie siano state falsamente rappresentate).

L'illegale ripartizione di utili

L'art. 2621, n. 2, cod. civ., puniva a titolo di illegale ripartizione di utili gli amministratori e i direttori generali che, in mancanza di bilancio approvato o in difformità da esso o in base a un bilancio falso, sotto qualunque forma, riscuotessero o pagassero utili fittizi o che non potevano essere distribuiti (il reato societario era procedibile d'ufficio e la cornice edittale di pena era identica a quella prevista per il reato di false comunicazioni sociali). La disposizione integrava un delitto di danno alle ragioni dei creditori sociali poiché la riscossione o il pagamento di utili fittizi, cioè non realmente conseguiti nella gestione sociale, o non distribuibili, intaccava capitale e riserve obbligatorie.

Il reato è stato riproposto dal D.Lgs. n. 61/2002 nell'art. 2627 cod. civ. che gli ha, peraltro, mutato i connotati, trasformandolo, come si ribadirà, in una contravvenzione che appare inadeguata al ruolo, essenziale per la conservazione del patrimonio sociale, che l'illegale ripartizione di utili dovrebbe assolvere al fine di tutelare i creditori sociali.

I soggetti attivi del reato

Poiché, come già si è avuto modo di dire, i reati societari sono richiamati nel delitto di bancarotta con tutti i loro estremi caratteristici definiti dalle norme del Codice civile, particolare attenzione va prestata all'individuazione normativa dei soggetti attivi del reato societario in quanto solo essi potranno essere soggetti attivi della corrispondente ipotesi di bancarotta (salva, naturalmente, l'applicabilità delle regole sul concorso di persone).

Ora sono indicati come possibili soggetti attivi del reato solo gli amministratori, non anche, come in passato, i direttori generali (si è evidentemente constatato che questi ultimi non sono titolari ex lege del potere gestorio di distribuzione di utili).

Allora, come ora, l'illegale ripartizione di utili non prevede tra i soggetti attivi sindaci e liquidatori.

L'esclusione dei liquidatori è giustificata dal fatto che la società in liquidazione non distribuisce utili (si vedrà che l'attuale art. 2633 cod. civ. contempla, per i liquidatori, il reato di indebita ripartizione dei beni sociali, disposizione richiamata nell'attuale formulazione della bancarotta da reato societario; la corrispondente disposizione penale societaria, contenuta nel vecchio art. 2625 cod. civ., non era, invece, ricompresa tra quelle elencate nel precedente art. 223, comma 2, n. 1). L'esclusione dei sindaci era, invece, ritenuta giustificata perché il previgente art. 2632, comma 1, n. 1, cod. civ., prevedeva un'autonoma incriminazione dei componenti di tale organo per il caso di omesso controllo sulla distribuzione di utili fittizi o non distribuibili; ora, però, tale disposizione non è stata più riproposta nella riforma dei reati societari probabilmente perché, prevedendo la punizione dei sindaci, fuori dei casi di concorso nel delitto di illegale ripartizione di utili, in caso di inadempimento degli obblighi in materia imposti dalla legge, apprestava una difesa troppo avanzata rispetto al bene giuridico tutelato, cioè all'integrità del capitale sociale e del patrimonio sociale indisponibile. Posto, peraltro, che gli obblighi ai quali la norma faceva riferimento erano stati individuati in quelli previsti, in generale, dagli artt. 2403 e 2407, comma 1, cod. civ., vale a dire dalle disposizioni sulle quali, in questi ultimi anni, è stata costruita la posizione di garanzia dei sindaci, può prevedersi che si riproporrà, soprattutto nell'alveo della bancarotta da reato societario, il problema del concorso omissivo dei sindaci nell'illegale attività degli amministratori. L'attuale art. 2627 cod. civ. non ripropone, infine, il riferimento, come presupposto della condotta, alla mancanza, difformità e falsità del bilancio; d'altra parte, la dottrina aveva rilevato che detto riferimento doveva ritenersi superfluo.

La nuova disposizione societaria ha, inoltre, accorpato parte delle previsioni contenute nell'art. 2621, n. 3, cod. civ.

L'illegale ripartizione di acconti sui dividendi

L'art. 2621, n. 3, cod. civ., prevedeva con il nomen di illegale ripartizione di acconti sui dividendi il fatto degli amministratori e dei direttori generali che distribuissero acconti sui dividendi:
a) in violazione dell'art. 2433 bis, comma 1, cod. civ. (secondo il quale la distribuzione di acconti sui dividendi è consentita solo alle società il cui bilancio è assoggettato per legge alla certificazione da parte di società di revisione iscritte all'Albo speciale);
b) in misura superiore all'importo degli utili conseguiti dalla chiusura dell'esercizio precedente, diminuito delle quote che devono essere destinate a riserva per obbligo legale o statutario e delle perdite degli esercizi precedenti e aumentato delle riserve disponibili;
c) in mancanza di approvazione del bilancio dell'esercizio precedente o del prospetto contabile previsto nell'art. 2433 bis, comma 5, cod. civ. (alla stregua del quale gli amministratori deliberano la distribuzione di acconti sui dividendi sulla base di un prospetto contabile e di una relazione, dai quali risulti che la situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società consente la distribuzione stessa) oppure in difformità da essi, ovvero sulla base di un bilancio o di un prospetto contabile falsi (anche questo reato societario era procedibile d'ufficio ed aveva lo stesso trattamento sanzionatorio delle false comunicazioni sociali).

Come si diceva, gran parte di questa articolata disposizione non è stata riproposta dalla riforma.

In particolare, non sono state riproposte le ipotesi di cui alle lett. a) e c) che punivano, quand'anche si fosse in presenza dei requisiti sostanziali per procedervi, mere violazioni formali delle regole di distribuzione di acconti. Dall'intervento riformatore si è salvata, dunque, solo la ripartizione di acconti di cui alla citata lett. b) perché direttamente lesiva dell'integrità del capitale sociale e delle riserve indisponibili.

Come già si è detto trattando dell'illegale ripartizione di utili, non sono stati riproposti tra i soggetti attivi del reato i direttori generali, privi di poteri deliberativi in ordine alla distribuzione di acconti sui dividendi.

La divulgazione di notizie sociali riservate

L'art. 2622 cod. civ. incriminava la divulgazione di notizie sociali riservate, vale a dire il fatto di amministratori, direttori generali, sindaci e loro dipendenti, liquidatori che, senza giustificato motivo, si servissero, a profitto proprio od altrui, di notizie avute a causa del loro ufficio, o ne dessero comunicazione, sempre che dal fatto potesse derivare pregiudizio alla società (si trattava di reato procedibile a querela e punito con la reclusione fino ad un anno e con la multa da lire duecentomila (103 euro) a due milioni (1.032 euro). Questa disposizione era estranea all'esigenza di una tutela diretta dei creditori sociali, limitandosi a sanzionare infedeltà dalle quali poteva derivare pregiudizio agli interessi patrimoniali della società.

Per questa ragione, oltre perché il delitto era punibile a querela della società, era dalla dottrina ritenuto un corpo estraneo nel tessuto della bancarotta da reato societario. La riforma lo ha estrapolato dal novero dei reati societari, trasformandolo in una circostanza aggravante del delitto di rivelazione del segreto professionale punito dall'art. 622 cod. pen. (art. 2, D.Lgs. n. 61/2002); di riflesso, naturalmente, è stato escluso anche dal nuovo elenco contenuto nella disposizione fallimentare.

Diverse figure di reato proprio degli amministratori

L'art. 2623 contemplava diverse figure di reato proprio degli amministratori, punite con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire quattrocentomila (euro 206) a due milioni (euro 1.032). L'art. 2623, n. 1, puniva la «illegittima riduzione del capitale sociale», la «illegittima fusione con altra società» e la «illegittima scissione», in altre parole, «l'esecuzione di riduzione di capitale, di fusione con altra società o di una scissione in violazione degli artt. 2306, 2445 e 2503 cod. civ.».

Si trattava di autonomi delitti, costruiti con tecnica sanzionatoria dato che la descrizione del fatto di reato era contenuta negli articoli citati (oltre che nell'art. 2504 novies cod. civ., che richiama l'art. 2503 cod. civ., per le operazioni di scissione).

Anche in tal caso ad essere tutelata era l'integrità del capitale sociale quale garanzia per i creditori, intaccata dagli illegittimi rimborsi dei conferimenti effettuati o dall'illegale liberazione dei soci dall'obbligo di effettuare i versamenti ancora dovuti, oltre che da operazioni di fusione o di scissione tra società floride e società decotte.

I fatti anzidetti sono stati ripresi dall'art. 2629 cod. civ. che, da un lato, come si ribadirà, ha abbandonato la tecnica sanzionatoria, dall'altro, ha rimarcato la funzione di tutela dei creditori, creando fattispecie di danno patrimoniale ai medesimi.

L'indebita restituzione dei conferimenti

L'art. 2623, n. 2, cod. civ., puniva la «indebita restituzione dei conferimenti», segnatamente la restituzione ai soci, palesemente o sotto forme simulate, dei conferimenti ovvero la liberazione dei soci dall'obbligo di eseguirli «fuori del caso di riduzione del capitale sociale».

Anche questa fattispecie si prestava a tutelare integrità ed effettività del capitale sociale; si trattava di norma di chiusura del sistema come poteva desumersi anche dall'inciso «fuori dal caso di riduzione del capitale sociale» che tratteggiava il confine con le illegittime riduzioni di cui sopra si è detto. Una fattispecie sostanzialmente identica è ora contenuta nell'art. 2626 cod. civ.

L'impedimento del controllo della gestione sociale

L'art. 2623, n. 3, cod. civ., incriminava «l'impedimento del controllo della gestione sociale» da parte del collegio sindacale, o, nei casi previsti dalla legge, da parte dei soci.

Il bene giuridico tutelato, individuato nella funzione di controllo interno sulla gestione della società, stigmatizzava l'anomalia insita nel richiamo di questa disposizione da parte della norma incriminatrice della bancarotta «societario». L'«impedito controllo» è ora un illecito amministrativo, che si trasforma in delitto qualora la condotta abbia cagionato un danno ai soci, contemplato dall'art. 2625 cod. civ.; detta disposizione non è più richiamata dalla norma fallimentare.

L'aggiotaggio societario

L'art. 2628 cod. civ., contemplava il c. d. aggiotaggio societario, punendo, come «manovre fraudolente sui titoli della società», il fatto di amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori che diffondessero notizie false o adoperassero altri mezzi fraudolenti atti a cagionare nel pubblico mercato o nelle borse di commercio un aumento o una diminuzione del valore delle azioni della società o di altri titoli ad essa appartenenti (pena: reclusione da uno a cinque anni e multa non inferiore a lire seicentomila (euro 309).

Anche in relazione a tale reato veniva stigmatizzata la disomogeneità rispetto alla lesività della bancarotta; benché l'individuazione del bene giuridico tutelato da tale disposizione fosse (e sia) controversa, era indiscutibile che essa non fosse finalizzata a proteggere direttamente gli interessi patrimoniali dei creditori sociali. L'aggiotaggio societario di cui al precedente art. 2628 cod. civ., è stato ora accorpato nel nuovo art. 2637 cod. civ., insieme alle diverse figure di aggiotaggio previste da leggi speciali, in particolare dall'art. 138 del D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385, Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, e dall'art. 181 del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (di seguito, per brevità, Tuf).

Le violazioni degli obblighi degli amministratori

L'art. 2630, comma 1, cod. civ., prevedeva come autonomi reati societari varie violazioni di obblighi incombenti agli amministratori, punite con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire quattrocentomila (206 euro) a lire due milioni (1.032 euro).

L'irregolare emissione di azioni o di quote

L'art. 2630, comma 1, n. 1, cod. civ., puniva la «irregolare emissione di azioni o di quote», consistente nell'emissione di azioni o nell'attribuzione di quote per somma minore del loro valore nominale ovvero l'emissione di nuove azioni o l'attribuzione di nuove quote prima che quelle sottoscritte precedentemente fossero interamente liberate.

Anche questa disposizione intendeva tutelare l'integrità del capitale sociale nella sua specifica funzione di garanzia degli interessi dei creditori.

Ciò appariva evidente con riguardo alla prima delle due condotte incriminate, cioè all'emissione di azioni o all'attribuzione di quote per somma minore del loro valore nominale. In tal caso, invero, il capitale sociale viene artificiosamente gonfiato.

Meno evidente era l'individuazione del bene giuridico dell'integrità del capitale sociale con riferimento alla seconda delle due condotte incriminate, dato che la mancata liberazione delle azioni prima della nuova emissione - in fase di aumento di capitale - non implicava di per sé un indebolimento della consistenza del capitale sociale poiché continuava a rimanere in vita, come componente dell'attivo sociale, il credito della società nei confronti dei soci.

È probabilmente questa la ragione per cui il nuovo art. 2632 cod. civ. non ha riproposto questa fattispecie, preferendo sanzionare gli amministratori e i soci conferenti che, anche in parte, formino od aumentino fittiziamente il capitale della società mediante attribuzione di azioni o quote sociali per somma inferiore al loro valore nominale.

L'illecito acquisto di azioni proprie

L'art. 2630, comma 1, n. 2, cod. civ., puniva la violazione dell'art. 2357, comma 1, cod. civ., vale a dire «l'illecito acquisto di azioni proprie».

La disposizione civile richiamata stabilisce che «la società non può acquistare azioni proprie se non nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall'ultimo bilancio regolarmente approvato» e può acquistare «soltanto azioni interamente liberate».

In primo piano anche in questo caso era l'esigenza di tutelare gli interessi dei creditori al mantenimento dell'integrità della garanzia patrimoniale; l'illecito acquisto di azioni proprie, come pure l'acquisto di azioni non interamente liberate, realizza una restituzione dei conferimenti ai soci, annacqua il capitale sociale e ne mina l'effettività.

L'illiceità penale dell'acquisto riguardava anche le quote delle società a responsabilità limitata, nonché le azioni o quote delle società cooperative, in virtù dell'espresso richiamo agli artt. 2483 e 2522 cod. civ.

Il fatto descritto è ora costruito come delitto di danno all'integrità del capitale sociale o delle riserve non distribuibili per legge dal nuovo art. 2628, comma 1, cod. civ.

Il divieto di prestiti o garanzie su azioni proprie

L'art. 2630, comma 1, n. 2, cod. civ., puniva la violazione dell'art. 2358 cod. civ., cioè il «divieto di prestiti o garanzie su azioni proprie».

Ai sensi dell'art. 2358 cod. civ., la società non può accordare prestiti, né fornire garanzie per l'acquisto o la sottoscrizione delle azioni proprie; non può, neppure per il tramite di società fiduciaria, o per interposta persona, accettare azioni proprie in garanzia. I divieti non operano in relazione alle operazioni effettuate per favorire l'acquisto di azioni da parte di dipendenti della società o di quelli di società controllanti o controllate (in questi casi, tuttavia, le somme impiegate e le garanzie prestate debbono essere contenute nei limiti degli utili distribuibili regolarmente accertati e delle riserve disponibili risultanti dall'ultimo bilancio regolarmente approvato). L'incriminazione era estesa anche alle quote delle società a responsabilità limitata in virtù del richiamo all'art. 2483 cod. civ. Controversa appariva l'individuazione del bene giuridico tutelato dalle due diverse figure criminose: il divieto di accordare prestiti o di fornire garanzie per l'acquisto o la sottoscrizione di azioni o quote sociali e il divieto di accettare in garanzia le azioni o quote medesime. Prevaleva, peraltro, l'opinione secondo cui, anche in tal caso, il bene giuridico tutelato dovesse essere individuato nell'integrità del capitale sociale in quanto, da un lato, la concessione di prestiti trasformava il conferimento in un credito di incerta realizzazione o in un mascherato rimborso del conferimento, dall'altro, le azioni o quote accettate in garanzia potevano perdere il loro valore. Si trattava, in ogni caso, di una tutela anticipata contro il pericolo di attentati all'integrità del capitale sociale.

Forse questa distanza tra le condotte incriminate e la possibile offesa al bene giuridico ha indotto il legislatore della riforma ad escludere dal novero dei reati societari la violazione dei divieti anzidetti.

L'illecito acquisto di azioni della società controllante

L'art. 2630, comma 1, n. 2, cod. civ., puniva la violazione dell'art. 2359 bis, comma 1, cod. civ., alias «l'illecito acquisto di azioni della società controllante».

Ai sensi della citata disposizione civilistica, la società controllata non può acquistare azioni o quote della società controllante se non nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall'ultimo bilancio regolarmente approvato. Possono essere acquistate soltanto azioni interamente liberate.

Ennesima utilizzazione della tecnica sanzionatoria per proteggere integrità ed effettività del capitale sociale dai rischi di annacquamento sub specie di restituzione dei conferimenti ai soci. Abbandonata la tecnica sanzionatoria, il nuovo art. 2628 cod. civ. sanziona l'acquisto di azioni o quote della società controllante qualora esso cagioni una lesione del capitale sociale o delle riserve non distribuibili per legge.

L'illecita sottoscrizione reciproca di azioni o quote

L'art. 2630, comma 1, n. 2, cod. civ., puniva la violazione dell'art. 2360, vale a dire «l'illecita sottoscrizione reciproca di azioni o quote».

Ai sensi dell'art. 2360 cod. civ. è vietato alle società di costituire o di aumentare il capitale mediante sottoscrizione reciproca di azioni, anche per tramite di società fiduciaria o per interposta persona.

Il capitale sociale, nella sua funzione di garanzia, è qui tutelato contro l'illusoria modificazione di ricchezza.

La formazione fittizia (o l'aumento fittizio) del capitale mediante sottoscrizione reciproca di azioni o quote è ora sanzionata dall'art. 2632 cod. civ.

L'illecita influenza sull'assemblea

L'art. 2630, comma 1, n. 3, cod. civ., puniva l'illecita influenza sulla formazione della maggioranza assembleare, commessa valendosi di azioni o di quote non collocate o facendo esercitare sotto altro nome il diritto di voto spettante alle proprie azioni o quote, ovvero usando altri mezzi illeciti.

La disposizione era estranea alla tutela degli interessi patrimoniali dei creditori, mirando piuttosto a tutelare l'interesse dei soci alla formazione di maggioranze assembleari che, nel rispetto della legge e dello statuto, costituissero espressione del loro consenso.

Il delitto di «illecita influenza sull'assemblea», ora contemplato dall'art. 2636 cod. civ., non è, come si vedrà, più richiamato dalla disposizione sulla bancarotta.

L'omessa offerta in Borsa dei diritti di opzione non esercitati

L'art. 2630, comma 1, n. 4, cod. civ., puniva l'omessa offerta in borsa dei diritti di opzione non esercitati, più precisamente gli amministratori che omettevano di offrire in borsa, nei termini e con le modalità stabilite dal comma 3 dell'art. 2441 cod. civ., i diritti di opzione non esercitati, se le relative azioni venivano sottoscritte. L'incriminazione non concerneva integrità ed effettività del capitale, ma tendeva ad evitare abusi degli amministratori e conseguenti danni economici per la società derivanti dall'attività di collocamento delle azioni non optate, segnatamente dal mancato incasso del controvalore dei diritti di opzione.

Il fatto non è più previsto come illecito societario dal D.Lgs. n. 61/2002 ed è, conseguentemente, stato escluso dall'ambito di applicazione della norma fallimentare.

I reati societari richiamati dalla previgente disposizione fallimentare: considerazioni di sintesi

Come si accennava, questa rapida rassegna sulle disposizioni del Codice civile richiamate dalla norma incriminatrice della bancarotta da reato societario, aiuta a comprendere le numerose critiche ad essa rivolte e ad individuare le ragioni che hanno spinto il legislatore a delineare il nuovo elenco di reati societari incluso nella disposizione riformata dall'art. 4, D.Lgs. n. 61/2002.

Si è visto, infatti, che parte delle disposizioni in precedenza richiamate miravano a tutelare interessi di soggetti diversi dai creditori o, comunque, beni giuridici diversi dal capitale e dal patrimonio indisponibile della società.

È intuibile, pertanto, che le critiche si concentrassero su tali disposizioni la cui assimilazione alla bancarotta appariva del tutto ingiustificata. L'eterogeneità dei reati societari inclusi nella vecchia disposizione fallimentare rappresentava probabilmente la conseguenza di un poco meditato trapianto in quest'ultima norma dell'elenco di reati societari contenuti nel vecchio art. 2640 cod. civ., vale a dire nella disposizione che contemplava, come circostanza aggravante ad effetto speciale, il danno di gravità rilevante derivato all'impresa.

Se, peraltro, l'elenco di reati societari che compariva nella disposizione aggravatrice poteva ritenersi giustificato in relazione alla stessa, dato che la sua finalità era quella di rafforzare la tutela della società, non altrettanto poteva sostenersi con riguardo agli effetti del trapianto nella disposizione sulla bancarotta, intesa, per contro, a rafforzare la tutela dei creditori sociali(22).

La previsione, in caso di fallimento della società, di fatti di bancarotta costituiti da fatti integranti, nella fisiologia della società, i meno gravi reati societari implicava, quantomeno, una selezione fondata sulla parziale omogeneità di contenuti offensivi; dovevano, in altre parole, essere scelte solo quelle disposizioni penali societarie finalizzate a tutelare la categoria dei creditori, destinataria della tutela fornita dalle norme penali fallimentari(23).

La dottrina, come già si è detto, rilevava che comparivano nell'elenco taluni reati societari del tutto eterogenei rispetto alla bancarotta e non comparivano, per contro, reati che avrebbero potuto essere considerati omogenei perché riconducibili alla tutela dell'integrità del capitale sociale (quali l'art. 2625 cod. civ. che puniva le indebite ripartizioni dei liquidatori e l'art. 2629 cod. civ. in tema di sopravvalutazione dei conferimenti in natura).

Le critiche si addensavano, in particolare, sulla divulgazione di notizie sociali riservate di cui all'art. 2622 cod. civ., sull'aggiotaggio societario di cui all'art. 2628 cod. civ., sull'impedimento del controllo della gestione sociale (art. 2623, n. 3, cod. civ.) e sull'illecita influenza sulla formazione della maggioranza assembleare (art. 2630, comma 1, n. 3)(24).

Nella nuova disposizione fallimentare non sono più richiamati, come già accennato, i fatti di cui agli anzidetti reati societari. Non vi erano, invece, lagnanze in relazione alle altre disposizioni penali societarie richiamate nella norma fallimentare, riconoscendosi che esse tutelavano l'integrità del capitale sociale (unanimemente ricondotta al principio di effettività, concernente la fase genetica dell'ente, e al principio di integrità, riguardante la fase dell'attività) lungo l'intero ciclo vitale della società; semmai, come si è detto, si lamentava che disposizioni penali come la valutazione esagerata dei conferimenti in natura, prevista dall'art. 2629, nn. 1 e 3, cod. civ., o come la dilapidazione di capitale attraverso scambi sperequati, di cui all'art. 2629, n. 2, rilevanti in fase di costituzione o di aumento del capitale ovvero nel biennio dopo la costituzione, non fossero state incluse nell'art. 223, comma 2, n. 1; così, ancora, come si è accennato, ci si doleva del fatto che la tipologia della bancarotta non fosse stata arricchita anche dal richiamo al citato art. 2625 cod. civ. che sanzionava il divieto, per i liquidatori, di procedere alla ripartizione dell'attivo tra i soci prima che fossero pagati i creditori sociali o fossero accantonate le somme necessarie per pagarli.

Le più significative disposizioni penali societarie non richiamate

Tra le disposizioni significative non richiamate nella vecchia formulazione della bancarotta da reato societario non vi erano solo quelle contenute nei citati artt. 2625 e 2629 cod. civ.; ve n'erano altre, non meno importanti, come quelle di cui agli artt. 2624, comma 1, e 2631, comma 2.

È utile, anche in tal caso, passare rapidamente in rassegna queste disposizioni soprattutto per cogliere i segnali di mutamento.

Prestiti contratti dagli amministratori con la società amministrata

L'art. 2624, comma 1, cod. civ., contemplava il fatto degli amministratori, dei direttori generali, dei sindaci e dei liquidatori che contraessero prestiti, sotto qualsiasi forma, sia direttamente sia per interposta persona, con la società amministrata o con una società che questa controllava o da cui fosse controllata ovvero che si facessero prestare da una di tali società garanzie per debiti propri. L'incriminazione di questi illeciti rapporti patrimoniali con la società mirava a salvaguardare l'integrità del patrimonio sociale contro le possibili aggressioni provenienti dall'interno della società stessa dirette a scalfirne la consistenza e a determinare una diminuzione patrimoniale. L'incriminazione prescindeva non solo dall'esistenza di un danno, ma anche dalla verifica della concreta idoneità delle condotte a porre in pericolo il bene giuridico tutelato.

Il conflitto di interessi dell'amministratore

L'art. 2631, comma 2, cod. civ., contemplava il «conflitto d'interessi dell'amministratore», punendo, con la pena detentiva, l'amministratore che, avendo in una determinata operazione per conto proprio o di terzi un interesse in conflitto con quello della società, non si fosse astenuto dal partecipare alla deliberazione del consiglio o del comitato esecutivo relativa alla operazione stessa, qualora dalla deliberazione o dall'operazione fosse derivato un pregiudizio alla società.

Siffatto pregiudizio era, però, inteso come circostanza aggravante della fattispecie - base costruita come reato di pericolo intesa a sanzionare un profilo di infedeltà patrimoniale.

Le fattispecie fin qui esaminate, incentrate sul conflitto di interessi con la società, hanno ora lasciato il posto alla figura dell'infedeltà patrimoniale inserita nell'art. 2634 cod. civ., sulla quale tra breve si tornerà, disposizione richiamata nella nuova formulazione dell'art. 223, comma 2, n. 1.

Valutazione esagerata dei conferimenti e degli acquisti della società

L'art. 2629 cod. civ. incriminava la «valutazione esagerata dei conferimenti e degli acquisti della società».

La disposizione puniva soggetti e comportamenti diversi.

Il numero 1 puniva la valutazione fraudolenta ed esagerata, nell'atto costitutivo, dei beni in natura o dei crediti conferiti.

Il numero 3 puniva lo stesso fatto, nel caso di aumento di capitale.

Il numero 4 puniva la valutazione esagerata e fraudolenta, nel caso di trasformazione della società, del patrimonio della società che si trasformava.

Il numero 2 puniva l'esagerata e fraudolenta valutazione, nel caso di acquisto di beni o di crediti da parte della società ex art. 2343 bis cod. civ., dei beni o dei crediti trasferiti.

Di tali ipotesi solo quest'ultima configurava un reato di pericolo, integrato anche se l'acquisto non avesse intaccato il bene giuridico tutelato, vale a dire l'integrità del capitale sociale.

Le altre tre ipotesi di esagerata e fraudolenta valutazione, invece, tutelavano il capitale sociale, nella sua funzione di garanzia, dalle condotte immediatamente lesive, producenti annacquamento del capitale sociale e sensazione di illusorie ricchezze.

Il legislatore della riforma non ha così più riproposto, con l'attuale art. 2632 cod. civ., la fattispecie di valutazione esagerata degli acquisti, limitandosi ad incriminare la formazione (o l'aumento) fittizia del capitale della società mediante «sopravvalutazione rilevante dei conferimenti dei beni in natura o di crediti ovvero del patrimonio della società nel caso di trasformazione».

A questo si aggiunga che l'art. 2632 cod. civ. è ora incluso nell'elenco dei fatti che integrano la bancarotta da reato societario qualora cagionino, o concorrano a cagionare, il dissesto della società.

L'indebita ripartizione dell'attivo sociale

L'art. 2625 cod. civ. puniva, infine, i liquidatori di società che procedessero alla ripartizione dell'attivo sociale fra i soci prima che fossero pagati i creditori o accantonate le somme necessarie per pagarli (reclusione da uno a tre anni e multa da lire duecentomila (euro 103) a due milioni (euro 1032). Disposizione solo in parte diversa è ora prevista nel nuovo art. 2633 cod. civ. (che prevede un delitto, procedibile a querela, per integrare il quale è richiesto che l'indebita ripartizione cagioni danno ai creditori), richiamato dalla norma incriminatrice della bancarotta.

La dottrina(25) era concorde nel ritenere che le disposizioni fin qui descritte fossero state inspiegabilmente ignorate dall'art. 223, comma 2, n. 1, nonostante la loro offensività fosse «mirata sui creditori sociali»; reputava, peraltro, al tempo stesso, in ciò condivisa dalla giurisprudenza, che esse fossero recuperabili all'ambito della bancarotta fraudolenta in quanto operazioni dolose, punibili ai sensi del n. 2, dell'art. 223, comma 2, purché da esse derivasse causalmente il fallimento della società(26).

La violazione di talune di esse poteva, inoltre, assumere in concreto portata distrattiva ai sensi dell'art. 216, comma 1, ricadendo quindi nel richiamo del comma 1 dell'art. 223(27). RIA

La nuova struttura della bancarotta da reato societario

Con l' art. 4 del D.Lgs. n. 61/2002 è stata, dunque, riformulata la disposizione incriminatrice della bancarotta da reato societario.

Ne rispondono ora gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori di società dichiarate fallite che abbiano «cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli artt. 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 del Codice civile». Prima di ogni altra considerazione, va notato che il volto della bancarotta fraudolenta da reato societario è stato profondamente modificato sia perché in molti casi sono mutate tipologia, caratteristiche ed elementi costitutivi dei reati societari richiamati, sia perché talune figure di reato non sono state più richiamate, sia soprattutto per la previsione di un evento, il dissesto, posto in rapporto di causalità con la commissione dei fatti previsti.

Il fatto integrante l'illecito societario

La precedente disposizione incriminatrice, come si è visto, non pretendeva, per l'integrazione del reato fallimentare, che il fatto di cui al reato societario cagionasse, o concorresse a cagionare, il dissesto.

Va detto, peraltro, che autorevole, ma sul punto non seguita, dottrina(28) riteneva, per contro, che, senza l'esistenza di un nesso eziologico tra i reati considerati dall'art. 223, comma 2, n. 1 e il fallimento della società, veniva a mancare ogni ragione che giustificasse l'aggravamento della pena; un aggravamento della pena senza nessuna connessione col dissesto fallimentare costituiva, in altre parole, una grave anomalia giuridica, nella quale si riteneva ravvisabile la violazione del principio della personalità della pena.

Si sottolineava, inoltre, che la contraria opinione portava a conseguenze assurde in quanto, in base ad essa, poteva essere chiamato a rispondere di bancarotta fraudolenta, con le gravissime pene comminate dall'art. 223, anche l'amministratore che, in epoca assai remota, prima che si fosse delineata la crisi economica della società, e senza nessuna connessione con la crisi medesima, avesse commesso una delle tante irregolarità che davano luogo ai reati contemplati dalla norma incriminatrice.

La trasformazione dell'ipotesi di bancarotta in esame da reato di pericolo presunto a reato di danno, da reato di mera condotta a reato di evento, impone, in ogni caso, di ritenere che il legislatore abbia rivalutato questa opinione dottrinale benché essa fosse fondata su un presupposto almeno parzialmente erroneo, vale a dire che tutti i fatti di cui alle disposizioni societarie richiamate non tutelavano direttamente i creditori sociali, ma offendevano, in via principale, gli interessi dell'ente e dei singoli soci, nonché l'interesse collettivo al regolare funzionamento della società di commercio.

La trasformazione, come tra breve si ribadirà, ha intrecciato la disposizione in esame con quella di cui al comma 2, n. 2, dell'art. 223 che punisce la causazione del dissesto «con dolo o per effetto di operazioni dolose» sia perché le ha accomunate nell'ambito del c. d. fallimento doloso, sia perché la disposizione da ultimo citata è interpretata, come sopra si è detto, nel senso che le operazioni dolose possono essere rappresentate anche dai fatti previsti dalle disposizioni penali societarie non oggetto del rinvio.

Ora, dunque, anche in relazione alla commissione di fatti integranti i citati reati societari, il dissesto della società deve essere conseguenza del comportamento del soggetto e presenta tutte le caratteristiche dell'evento consumativo del reato.

Il fatto integrante l'illecito societario deve, in altre parole, determinare (o contribuire a determinare) una situazione aziendale in presenza della quale la pronuncia del tribunale fallimentare diventi un atto dovuto.

Non occorre - è opportuno ribadirlo - che la commissione del fatto integrante l'illecito societario sia l'unica causa del dissesto, essendo sufficiente che abbia concorso a produrlo.

Cause che concorrono a cagionare il dissesto

L'efficacia causale, dunque, non è esclusa dal concorso di altre cause concomitanti, pur essendo ipotizzabile un'interruzione del nesso di causalità ai sensi dell'art. 41, comma 2, cod. pen., ad opera di concause di assorbente rilevanza (si pensi, ad esempio, all'imprevista insolvenza del più importante debitore della società). Potrà capitare, ad esempio, che il falso in bilancio si ponga come concausa del dissesto; si pensi all'amministratore di una società che, nel corso di un determinato esercizio sociale, ponga in essere atti di spoliazione del patrimonio sociale, avendo cura di mascherarli in un bilancio falso; anche grazie a detto bilancio, nell'esercizio successivo potrà, ad esempio, ricorrere al credito e proseguire nella sua opera di spoliazione fino a causare l'irreversibile dissesto della società. In tal caso, è di tutta evidenza che sia gli atti di spoliazione sia la falsità del bilancio avranno contribuito a cagionare il dissesto, da intendersi come situazione di irreversibile crisi della società che non può che sfociare nella dichiarazione di fallimento. Al giudice sarà, dunque, in concreto rimessa la valutazione intesa a verificare che il falso in bilancio non sia successivo a un dissesto già verificatosi perché in tal caso non potrebbe dirsi che la commissione del fatto di cui all'art. 2621 o all'art. 2622 cod. civ. abbia cagionato il dissesto della società. La disposizione fallimentare in esame, d'altra parte, non è destinata a punire la commissione di fatti, previsti dalle anzidette disposizioni societarie, che abbiano aggravato un dissesto già esistente.

Va solo aggiunto che l'inciso «o concorso a cagionare» è stato inserito dal legislatore delegato dopo che il Senato, in sede consultiva, aveva richiamato il Governo a conformarsi a quanto previsto dall'art. 11, lett. g) , della legge n. 366/2001.

Va rilevato, inoltre, che al dissesto, come evento consumativo del reato, si unisce il richiamo al fallimento contenuto nell'alinea dell'art. 223, che fa riferimento alle «società dichiarate fallite»: ciò significa che la sentenza dichiarativa di fallimento svolge, rispetto ai fatti pre fallimentari, il ruolo di condizione obiettiva estrinseca di punibilità(29); ne consegue il venir meno della punibilità qualora la dichiarazione di fallimento provocata dal soggetto qualificato venga successivamente revocata. In altre parole, la causa del dissesto attraverso la commissione dei fatti integranti gli illeciti societari/a> richiamati è punita solo se la società sia stata dichiarata fallita e l'affermazione vale anche per chi, come la giurisprudenza, considera la sentenza dichiarativa del fallimento un elemento costitutivo del reato (non una condizione obiettiva di punibilità)(30).

Si diceva prima che la nuova disposizione provoca interferenze con quella, non toccata dal legislatore, di cui al successivo n. 2 che punisce il dissesto causato con dolo o per effetto di operazioni dolose.

NNon è questa la sede per dilungarsi sull'interpretazione da attribuirsi e attribuita all'anacronistica formula che caratterizza quest'ultima disposizione, l'unica, fino ad oggi, che nella sistematica della bancarotta imponeva, ai fini dell'integrazione del reato, la necessaria correlazione causale tra la condotta e il dissesto della società(32).

È sufficiente per ora notare che detta norma non è più sola, dato che, come si è visto, anche la bancarotta da reato societario è stata costruita come reato di evento, appunto individuato nel dissesto./font>

Ne deriva, a tutta evidenza, che la disposizione penale di cui all'art. 223, comma 2, n. 1 è oggi da considerarsi speciale rispetto a quella di cui al n. 2.

A ciò si aggiunga che, qualora la commissione del fatto integrante uno degli illeciti societari richiamati non abbia cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto, resterà ferma la punibilità del soggetto per il relativo illecito societario.

Il rilievo assume connotati peculiari nella materia penale fallimentare in cui, a norma dell'art. 219, comma 2, n. 1, la pluralità dei fatti di bancarotta integra un'ordinaria circostanza aggravante.

Orbene, la tendenza giurisprudenziale è, come si è detto, nel senso di ritenere applicabile l'anzidetta circostanza aggravante anche nel caso in cui uno o più dei fatti integranti l'anzidetta pluralità, integri la bancarotta da reato societario.

Ne scaturisce un evidente paradosso: se, invero, la commissione del fatto integrante il reato societario non ha cagionato il dissesto della società non è ipotizzabile la bancarotta impropria, ma il solo reato societario con il risultato che, qualora esso concorra con un fatto di bancarotta, sarà applicabile la più severa disciplina del concorso materiale di reati, seppur eventualmente sub specie di continuazione in caso di identità del disegno criminoso.

Il nuovo elenco di disposizioni penali societarie

ÈÈ, ora, il momento di esaminare il nuovo elenco di disposizioni penali societarie, premettendo che, in relazione ad esso, non ha più senso evocare il concetto di tassatività, essendo stata la disposizione avocata al genus aperto della causa del dissesto con dolo per effetto di operazioni dolose. Prima, però, ancora alcune precisazioni.

Il rinvio alle disposizioni penali societarie ha, in ogni caso, natura non recettizia.

In altre parole, i citati articoli del Codice civile devono intendersi richiamati nella loro formulazione vigente, non si tratta, dunque, di rinvio alle mere previsioni delle coeve disposizioni del Codice civile, ma altresì a quanto, per effetto di successive modifiche, venga dalle stesse recepito quale diverso comportamento penalmente rilevante(33)./font>

È necessario, per concludere, tornare su un tema in precedenza appena abbozzato, quello del coordinamento tra la disposizione penale fallimentare e le singole disposizioni penali societarie con specifico riguardo ai soggetti attivi.

L'art. 223, nell'alinea del comma 2, individua i soggetti attivi della bancarotta impropria da reato societario nelle persone indicate al comma 1, vale a dire gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori di società dichiarate fallite.

Va detto, peraltro, che la maggior parte delle disposizioni penali societarie elencate indica come soggetti attivi i soli amministratori (come, ad esempio, gli artt. 2626, 2627, 2628 e 2629 cod. civ.) o i soli liquidatori (art. 2633 cod. civ.).

ÈÈ, pertanto, da escludersi che, in relazione ai fatti anzidetti, possano essere chiamati a rispondere di bancarotta soggetti diversi dagli amministratori o dai liquidatori, a meno che essi non possano considerarsi amministratori o liquidatori di fatto e ferma restando l'applicabilità dei principi in materia di concorso dell' extraneus nel reato proprio.

Va, poi, osservato che due delle disposizioni penali societarie richiamate integrano contravvenzioni, non delitti: si tratta degli artt. 2621 (false comunicazioni sociali) e 2627 (illegale ripartizione degli utili e delle riserve) cod. civ./font>

Potrebbe riproporsi, dunque, un interrogativo già visto nel passato: quale sia, cioè, la ragione che può considerarsi idonea a determinare non solo il passaggio dalla contravvenzione a un delitto, ma anche un così consistente aumento della risposta sanzionatoria.

Ciò che in passato era inspiegabile (e che generava seri dubbi di legittimità costituzionale) non essendo richiesto che il fatto avesse cagionato il dissesto, può forse oggi trovare in questa relazione causale la ragione dell'assimilazione del fatto di cui alla contravvenzione alle ipotesi di bancarotta.

LLe disposizioni incriminatrici di reati/a> societari richiamate

Ai sensi del nuovo art. 223, comma 2, n. 1 sono puniti, con le pene previste dall'art. 216 per la bancarotta fraudolenta, gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori che «hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti» dai seguenti articoli del Codice civile: artt. 2621 e 2622 (false comunicazioni sociali che non abbiano o abbiano cagionato danno patrimoniale ai soci o ai creditori); art. 2626 (indebita restituzione dei conferimenti); art. 2627 (illegale ripartizione degli utili e delle riserve); art. 2628 (illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante); art. 2629 (operazioni in pregiudizio dei creditori, segnatamente riduzioni del capitale sociale o fusioni con altra società o scissioni); art. 2632 (formazione o aumento fittizi del capitale); art. 2633 (indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori); art. 2634 (infedeltà patrimoniale)(34).

Come si legge nella Relazione(35), sono state previste come ipotesi-base «i reati societari dolosi che, seppur con diversa oggettività giuridica, siano armonicamente riconducibili nella tipicità della bancarotta fraudolenta, in ragione di una parziale omogeneità di offesa»; è sembrato, in altre parole, indispensabile «considerare, nella più grave prospettiva fallimentare, gli illeciti penali nei quali la strumentalizzazione dei meccanismi societari sia rivolta contro le ragioni creditorie, per converso escludendo quei reati - già previsti nel Codice civile del '42 - che, non presentando alcuna affinità offensiva con l'art. 223, non meritano considerazione al fine di una tanto più severa previsione punitiva».

Il legislatore delegato, dunque, oltre a esaudire la richiesta del delegante di stabilire un collegamento causale tra i reati societari richiamati nella fattispecie di bancarotta e il dissesto della società, ha sentito la necessità di farsi carico di talune tra le più consistenti obiezioni che la dottrina aveva mosso nei confronti della previgente disposizione, segnatamente le obiezioni che rimarcavano la disomogeneità tra il bene giuridico tutelato dal delitto di bancarotta e i beni giuridici tutelati da talune delle disposizioni penali societarie richiamate. Va detto, peraltro, che, richiedendo la nuova disposizione, per la punibilità a titolo di bancarotta, che i fatti integranti i richiamati illeciti societari siano causativi (o concausativi) del dissesto, il problema della disomogeneità dei beni giuridici ha perso gran parte della rilevanza che aveva in passato. Nel nuovo art. 223, comma 2, n. 1, sono ora richiamate a integrare il delitto di bancarotta, le disposizioni in cui si ravvisa una tutela diretta dei creditori sociali, in particolare quelle che tutelano l'integrità del capitale sociale in fase di costituzione o di aumento (art. 2632) e durante la vita dell'ente (art. 2627 cod. civ.), quelle che comunque rispondono a un'esigenza di tutela dei creditori anche attraverso la tutela dell'integrità del capitale (artt. 2626, 2628, 2629 e 2633 cod. civ.). Nella nuova disposizione fallimentare sono, altresì, richiamati i fatti di false comunicazioni sociali e i fatti di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 cod. civ.

Sdoppiate le false comunicazioni sociali/font>

NNegli artt. 2621 e 2622 cod. civ., come si è accennato, sono state sdoppiate le false comunicazioni sociali(36). Il legislatore ha rimesso mano alla materia con un intervento che ha mutato i connotati della fattispecie, di fatto privatizzandola attraverso la creazione di tre diverse figure di reato delle quali solo quella contravvenzionale rimane a presidiare il bene giuridico collettivo della veridicità e della completezza dell'informazione societaria.

Le false comunicazioni sociali dannose per i creditori e i soci/font>

Le altre due fattispecie, configurate nel nuovo testo dell'art. 2622 cod. civ., introducono, invece, nell'ordinamento penale societario l'inedita figura delle false comunicazioni sociali dannose per i creditori e soci, articolata per l'appunto su due autonome ma identiche ipotesi delittuose distinte unicamente dal fatto di riguardare, l'una, gli illeciti commessi nell'ambito di società quotate, l'altra, quelli consumati in seno alle altre società di capitali.

DDi fatto, pur con il dovuto rispetto per la fattispecie contravvenzionale, il reato è diventato di danno al patrimonio dei soci o dei creditori.

La procedibilità delle condotte illecite a querela/font>

È stata, inoltre, introdotta la procedibilità a querela del delitto quando le condotte illecite vengono consumate nell'ambito di società non quotate. Fermo restando il riferimento alle relazioni e ai bilanci, la novità più significativa concerne la specificazione delle «altre comunicazioni sociali» che ora possono essere costituite solo da quelle «previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico» (art. 2621, comma 1; art. 2622, comma 1, cod. civ.).

Il nucleo del fatto incriminato dalle nuove disposizioni consiste nell'esposizione di fatti materiali, ancorché oggetto di valutazioni (vale a dire le stime che caratterizzano la maggior parte delle voci di bilancio e che rispondono a una pluralità di considerazioni fondate su elementi di varia natura), non rispondenti al vero o nell'omissione di informazioni, la cui comunicazione sia imposta dalla legge, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene.

Tanto l'art. 2621 che l'art. 2622 cod. civ. prevedono, poi, che le condotte anzidette devono essere idonee ad indurre in errore i destinatari (pubblico o soci) sulla predetta situazione.

Ipotesi di non punibilità del fatto

LL'intervento legislativo è, inoltre, caratterizzato dalla previsione di casi di non punibilità nonché dall'abbattimento delle sanzioni (soprattutto se si instaura un raffronto tra la precedente disciplina e l'attuale ipotesi contravvenzionale) e dalla differenziazione del trattamento sanzionatorio a seconda che il delitto concerna società non quotate o quotate.

Le nuove fattispecie contemplano ipotesi di non punibilità del fatto./font>

Anzitutto, il fatto non è punibile se è il frutto di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10 per cento da quella corretta (art. 2621, comma 4, e art. 2622, comma 6, cod. civ.).

Le soglie di punibilità

La punibilità è, inoltre, esclusa se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo o comunque determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5 per cento, o una variazione del patrimonio netto non superiore all'1 per cento (art. 2621, comma 3; art. 2622, comma 5, cod. civ.).

Le soglie (differenza superiore al 10 per cento delle valutazioni; alterazione sensibile; variazione del risultato economico di esercizio superiore al 5 per cento; variazione del patrimonio netto non superiore all'1 per cento) non sono da considerarsi mere condizioni poste per la concreta punibilità dei reati in commento - non sono cioè esterne alla struttura del reato - ma concorrono a tipizzare le condotte penalmente rilevanti.

I reati in esame sono caratterizzati, poi, dalla necessità di un dolo specifico intenzionale racchiuso nella locuzione «con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico» (simmetrico alla direzionalità oggettiva delle comunicazioni sociali incriminabili), che va ad aggiungersi al dolo generico avente a oggetto gli elementi strutturali del fatto.

A integrare il reato, sotto il profilo psicologico, è altresì necessario che il soggetto attivo si proponga l'ulteriore scopo «di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto», locuzione talmente utilizzata nell'ambito dei reati patrimoniali da non richiedere particolare commenti, se non che tra gli altri per i quali il soggetto agente può proporsi di conseguire un profitto vi dovrebbe essere anche la società.

Come già si è detto, non sono più contemplati tra i soggetti attivi i promotori e i soci fondatori perché tra le comunicazioni incriminabili non sono più previste quelle concernenti la costituzione della società (il falso nella fase costitutiva sarà ora rilevante essenzialmente nell'ambito della repressione della truffa e potrebbe, altresì, rilevare nell'ambito dell'art. 2623 cod. civ., con specifico riguardo alla falsità dei prospetti che sollecitano investimenti).

L'indebita restituzione dei conferimenti

L'art. 2626 cod. civ. prevede, come si è detto, «l'indebita restituzione dei conferimenti», consistente nel fatto degli «amministratori che, fuori dei casi di legittima riduzione del capitale sociale, restituiscono, anche simulatamente, i conferimenti ai soci o li liberano dall'obbligo di eseguirli».

La nuova disposizione è sostanzialmente identica a quella contenuta nel precedente art. 2623, n. 2, cod. civ., eccezion fatta per la pena (reclusione fino ad un anno contro reclusione da sei mesi a tre anni e multa da 206 a 1032 euro).

L'illegale ripartizione degli utili e delle riserve

L'art. 2627 cod. civ. prevede la contravvenzione di «illegale ripartizione degli utili e delle riserve» consistente, «salvo che il fatto non costituisca più grave reato», nel fatto degli «amministratori che ripartiscono utili o acconti su utili non effettivamente conseguiti o destinati per legge a riserva, ovvero che ripartiscono riserve, anche non costituite con utili, che non possono per legge essere distribuite».

La nuova fattispecie configura come condotta autonoma la ripartizione di qualsiasi riserva, anche non da utili (riserve da sovrapprezzo, da rivalutazione, ecc.), che non possa essere per legge distribuita; per converso, tanto in rapporto alla ripartizione degli utili che delle riserve, l'area di protezione penalistica è stata circoscritta alle sole riserve obbligatorie per legge, con esclusione delle riserve non distribuibili per statuto.

La restituzione degli utili o la ricostituzione delle riserve prima del termine previsto per l'approvazione del bilancio estingue il reato.

SSi è mantenuta nella formulazione della norma la clausola «salvo che il fatto non costituisca più grave reato», in quanto l'illegale ripartizione di utili o riserve da parte degli amministratori può integrare un reato più grave (ad esempio l'appropriazione indebita di cui all'art. 646 cod. pen. oppure l'indebita restituzione di conferimenti ex/em> art. 2626 cod. civ. attuata mediante pagamento di utili o di acconti su utili fittizi).

Abolizione delle pene

CComplessivamente, dunque, la nuova disposizione presenta caratteristiche diverse rispetto alla precedente dislocata nell'art. 2621, nn. 2 e 3: si tratta di una contravvenzione non di un delitto; le pene sono state abbattute; i direttori generali sono stati esclusi dal novero dei soggetti attivi del reato; è stata abolita l'ipotesi di illegale ripartizione di utili non distribuibili per norma statutaria (in compenso rilevano anche le riserve legali non da utili); sono state abolite le ipotesi previste, in relazione alla distribuzione degli acconti, dalle lett. a)/em> e c) dell'art. 2621, n. 3, cod. civ.; è prevista, infine, la restituzione quale causa di esclusione della punibilità.

Le illecite operazioni sulle azioni o quote sociali

L'art. 2628 cod. civ. punisce le «illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante», consistenti nel fatto degli «amministratori che, fuori dei casi consentiti dalla legge, acquistano o sottoscrivono azioni o quote sociali, cagionando una lesione all'integrità del capitale sociale o delle riserve non distribuibili per legge» e nel fatto degli «amministratori che, fuori dei casi consentiti dalla legge, acquistano o sottoscrivono azioni o quote emesse dalla società controllante, cagionando una lesione del capitale sociale o delle riserve non distribuibili per legge». Non è più sufficiente, per aversi reato, la mera violazione delle disposizioni civilistiche, ma è necessario che le condotte cagionino un danno al bene giuridico tutelato, vale a dire all'integrità del capitale sociale e delle riserve non distribuibili per legge. Se il capitale sociale o le riserve sono ricostituiti prima del termine previsto per l'approvazione del bilancio relativo all'esercizio in relazione al quale è stata posta in essere la condotta, il reato è estinto.

Le nuove disposizioni sono in parte diverse dalle precedenti contenute nell'art. 2630, comma 1, n. 2, cod. civ. (che richiamava gli artt. 2357, comma 1, e 2359 bis cod. civ.); sono, invero, caratterizzate da un evento di danno (lesione all'integrità del capitale sociale o delle riserve non distribuibili per legge), da una pena sensibilmente inferiore (reclusione fino a un anno contro reclusione da sei mesi a tre anni e multa da 206 a 1.032 euro) e dalla previsione della restituzione quale causa di esclusione della punibilità.

Operazioni in pregiudizio dei creditori

L'art. 2629 cod. civ. sotto la rubrica «operazioni in pregiudizio dei creditori» incrimina il fatto degli «amministratori che, in violazione delle disposizioni di legge a tutela dei creditori, effettuano riduzioni del capitale sociale o fusioni con altra società o scissioni, cagionando danno ai creditori». Rispetto al precedente art. 2623, n. 1, cod. civ., è necessario che le operazioni abbiano cagionato danno ai creditori; tra le novità si segnala, inoltre, la procedibilità a querela e l'introduzione di una causa di estinzione del reato, consistente nel risarcimento del danno ai creditori prima del giudizio.

Formazione fittizia del capitale

LL'art. 2632 cod. civ. punisce le ipotesi di «formazione fittizia del capitale» integrate dal fatto degli «amministratori e i soci conferenti che, anche in parte, formano o aumentano fittiziamente il capitale della società mediante attribuzione di azioni o quote sociali per somma inferiore al loro valore nominale, sottoscrizione reciproca di azioni o quote, sopravvalutazione rilevante dei conferimenti di beni in natura o di crediti ovvero del patrimonio della società nel caso di trasformazione».

La disposizione ripropone le fattispecie, alle quali si è in precedenza accennato, di irregolare emissione di azioni o quote (art. 2630, comma 1, n. 1), di illecita sottoscrizione reciproca di azioni (art. 2630, comma 1, n. 2 in relazione all'art. 2360 cod. civ.) e di sopravvalutazione dei conferimenti di beni in natura o di crediti ovvero del patrimonio della società nel caso di trasformazione (art. 2629 cod. civ.), prevedendo una sensibile diminuzione di pena (reclusione fino a un anno contro reclusione da sei mesi a tre anni e multa da 206 a 1.032 euro). Si tratta di fattispecie orientate a evitare la formazione fittizia del capitale./font>

La disposizione è volta a colpire, in modo unitario, le condotte che incidono, inquinandolo, sul processo genetico del nucleo patrimoniale protetto nei due momenti della costituzione della società e dell'aumento di capitale.

SSi tratta di una fattispecie delittuosa, procedibile d'ufficio, costruita come reato d'evento a condotta vincolata.

L'indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori/font>

L'art. 2633 cod. civ. punisce «l'indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori», consistente nel fatto dei liquidatori che «ripartendo i beni sociali tra i soci prima del pagamento dei creditori sociali o dell'accantonamento delle somme necessario a soddisfarli, cagionano danno ai creditori».

Anche in tal caso il legislatore ha abbandonato la tecnica del pericolo presunto e il risarcimento del danno ai creditori prima del giudizio estingue il reato.

L'infedeltà patrimoniale

L'art. 2634 cod. civ. prevede il delitto di «infedeltà patrimoniale» consistente nel fatto degli amministratori, direttori generali e liquidatori che «avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale».

Il comma 2 prevede che la punibilità sia estesa al caso in cui il fatto venga commesso in relazione a beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi, cosicché il danno patrimoniale sia cagionato a questi ultimi.

In ogni caso - si legge nel comma 3 - «non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo».

Per i delitti previsti dai commi 1 e 2 si procede a querela della persona offesa.

CCon questa disposizione il legislatore si propone lo scopo di ovviare all'inefficienza delle disposizioni che attribuivano rilevanza penale a specifiche ipotesi di conflitto d'interessi (contenute nei vecchi artt. 2624 e 2631 cod. civ., oltre che nell'art. 2630, comma 2, n. 1, che puniva la «irregolare percezione di emolumenti») e all'assenza di norme incriminatrici comuni in grado di fronteggiare questa tipologia d'aggressioni.

Seguendo la strada percorsa, nel campo dei rapporti tra intermediari finanziari e clientela, dall'art. 168 Tuf, si è circoscritta la reazione punitiva agli atti d'infedeltà posti in essere in una situazione di conflitto d'interessi.

La fattispecie è stata strutturata come reato d'azione con evento di danno./font>

Sul versante soggettivo, la fattispecie è poi ulteriormente circoscritta dalla previsione di un dolo specifico d'ingiusto profitto per l'agente o per altri.

I problemi posti dalla nuova disposizione fallimentare

Si diceva prima che l'avere previsto la causazione del dissesto come elemento costitutivo della bancarotta da reato societario fa sì che la fattispecie sia diventata speciale rispetto a quella che contempla il dissesto quale effetto di operazioni dolose.

Vi è il concreto rischio, pertanto, che l'impegno profuso dal legislatore delegato nella selezione delle disposizioni penali societarie da includere nella fattispecie incriminatrice di cui ci si occupa sia stato vano dato che operazioni dolose causative del dissesto, e perciò rilevanti ai sensi dell'art. 223, comma 2, n. 2, potrebbero in concreto essere ravvisate in fatti integranti reati societari diversi da quelli esplicitamente richiamati (si pensi, ad esempio, alle falsità nei prospetti di cui all'art. 2623 cod. civ.).

Dalla nuova disposizione, in particolare dall'evidente affinità tra la maggior parte dei fatti di cui alle disposizioni societarie richiamate e i fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale di cui all'art. 216, comma 1, n. 1, scaturiscono altri interrogativi. Si è detto sopra che il legislatore, nel riscrivere la fattispecie incriminatrice della bancarotta da reato societario, ha selezionato le disposizioni societarie che meglio reggessero l'assimilazione alla bancarotta fraudolenta patrimoniale, richiamando in particolare quelle dettate per tutelare direttamente gli interessi patrimoniali dei creditori o, in ogni caso, per tutelare l'integrità del capitale sociale e delle riserve, costituenti la garanzia patrimoniale dei creditori medesimi (dimentichiamo, per ora, le disposizioni incriminatrici delle false comunicazioni sociali, più affini alla bancarotta documentale che non a quella patrimoniale).

L'art. 216, comma 1, n. 1, in virtù del rinvio contenuto nell'art. 223, comma 1, punisce, com'è noto, a titolo di bancarotta fraudolenta patrimoniale gli atti di diminuzione, effettiva o fittizia, del patrimonio sociale posti in essere dagli organi di amministrazione, direzione generale e controllo interno delle società.

La bancarotta fraudolenta patrimoniale ha natura di reato di pericolo (presunto secondo la giurisprudenza(37), concreto secondo autorevole dottrina)(38) per la cui integrazione è sufficiente il dolo generico consistente nella consapevolezza di intaccare o, comunque, di porre in pericolo l'interesse dei creditori alla conservazione della garanzia patrimoniale(39). A questo si aggiunga che, a integrare la bancarotta fraudolenta patrimoniale, non è attualmente necessario che il fatto depauperatorio abbia determinato il dissesto (e neppure un concreto pericolo d'insolvenza).

È agevole, dunque, intuire che la commissione dei fatti sopra indicati, integranti i citati reati societari, è tendenzialmente destinata a realizzare fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale, se la società è dichiarata fallita.

Si pensi, ad esempio, alla «indebita restituzione di conferimenti» da parte dell'amministratore (art. 2626 cod. civ.). La restituzione palese, fuori dei casi di legittima riduzione del capitale sociale, dei conferimenti ai soci è un trasferimento di beni sociali senza adeguato corrispettivo, vale a dire, se la società è dichiarata fallita, un fatto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, segnatamente di distrazione(40). La più verosimile restituzione "simulata", attuata ad esempio attraverso l'adempimento di inesistenti obbligazioni pecuniarie nascenti da contratti apparenti, il riconoscimento di passività inesistenti, con o senza correlata compensazione, il pagamento di utili o di acconti su utili fittizi, potrà integrare a seconda dei casi la bancarotta fraudolenta patrimoniale sub specie di distrazione(41) ovvero di riconoscimento di passività inesistenti.

La liberazione dei soci dall'obbligo di eseguire i conferimenti integra rinuncia ad un credito e la rinuncia ad un credito senza contropartita, o con contropartita inadeguata, realizza la bancarotta fraudolenta patrimoniale, in particolare la distruzione(42).

Proseguendo negli esempi, che dire dell'amministratore che commetta fatti di «illegale ripartizione degli utili e delle riserve» (art. 2627 cod. civ.), vale a dire che riscuota (come socio) o paghi (ai soci) utili (o acconti) non realmente conseguiti o reali ma non distribuibili (con ciò violando un vincolo legale di destinazione)?

La risposta è obbligata: se la società fallisce, l'uso di beni sociali per beneficiare terzi senza corrispettivo, per attribuire un vantaggio patrimoniale senza contropartita integra, come sopra si è detto, bancarotta fraudolenta per distrazione(43).

A conclusioni analoghe, non può che pervenirsi anche con riguardo ai fatti degli amministratori, descritti negli artt. 2628, 2629 e 2634 cod. civ., o dei liquidatori, previsti negli artt. 2633 e 2634 (fattispecie che prevede, tra i soggetti attivi, anche i direttori generali) cod. civ.

Ben difficilmente, come prima si diceva, intervenuto il fallimento della società, fatti come quelli fin qui indicati non integreranno ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale.

In parte, se ne era forse reso conto anche il legislatore del 1942 che non aveva incluso, come si è visto, nell'elenco di cui all'art. 223, comma 2, n. 2 gli artt 2624, 2625 e 2631 cod. civ. Detto questo, sorge inevitabile un interrogativo: che senso ha pretendere, per la punibilità a titolo di bancarotta impropria da reato societario che la commissione di tali fatti abbia cagionato il dissesto se già, in caso di fallimento della società, essi entrerebbero nel fuoco della bancarotta impropria di cui all'art. 223, comma 1, nella parte in cui richiama l'art. 216, per la cui integrazione non è richiesto che i fatti abbiano cagionato il dissesto?

Sembra, naturalmente, da escludere che il legislatore delegato, includendo tali fatti nell'art. 223, comma 2, n. 1, abbia inteso affermare che, d'ora in poi, essi daranno vita a bancarotta solo qualora abbiano cagionato il dissesto della società.

Questo significherebbe, infatti, negare anni di applicazione e di interpretazione delle disposizioni sulla bancarotta fraudolenta patrimoniale.

False comunicazioni sociali affini alla bancarotta documentale

Alcune considerazioni per concludere vanno svolte anche con riguardo alle false comunicazioni sociali, più affini, come prima si diceva, alla bancarotta documentale.

Come si è detto, l'art. 223, comma 2, n. 1, legge fall. richiama sia l'art. 2621 cod. civ. sia l'art. 2622 cod. civ.; in altre parole, sia le false comunicazioni sociali che non abbiano cagionato un danno patrimoniale ai soci o ai creditori, sia quelle che lo abbiano cagionato.

Non è ben chiara la ragione del richiamo anche della disposizione di cui all'art. 2621 cod. civ. Qualora, invero, false comunicazioni sociali abbiano cagionato il dissesto della società sembra una contraddizione in termini affermare che esse non abbiano cagionato un danno patrimoniale ai soci o ai creditori e siano, pertanto, sussumibili nel solo illecito contravvenzionale di cui all'art. 2621 cod. civ. Va detto, già se ne è fatto cenno, che nella pratica sarà difficile imbattersi in false comunicazioni sociali che abbiano cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto, essendo ragionevole ritenere che più frequentemente esse, in particolare un falso bilancio, mascherino un dissesto già verificatosi.

Va osservato, infine, che il bilancio è scrittura obbligatoria nei termini di cui all'art. 2217, comma 2, cod. civ.; non sembra da escludere, pertanto, che la falsificazione del bilancio, caratterizzata dallo scopo di arrecare pregiudizio ai creditori o dallo scopo di profitto, sia ritenuta integrare la bancarotta fraudolenta documentale di cui all'art. 216, comma 1, n. 2, prima parte.

Occorre, però, rimarcare che la norma fallimentare mira a salvaguardare - come si è rilevato(44) - l'interesse a una ostensibilità retrospettiva e, cioè, a rendere possibile la ricostruzione - una volta dichiarato il fallimento - degli affari patrimoniali dell'imprenditore.

La verifica della continuità normativa tra vecchia e nuova disposizione

Si tratta ora di affrontare un problema complesso, che potrebbe dare luogo a divergenze interpretative, quello della verifica, in mancanza di un espresso regime transitorio di raccordo, della continuità normativa tra la precedente disposizione e quella, successiva, sovrascritta dal legislatore delegato.

Si tratta, in altre parole, di verificare se, nel caso di specie, vi sia «successione di leggi penali nel tempo» (con conseguente applicazione del comma 3 dell'art. 2 cod. pen.) ovvero i diversi fenomeni della abolitio criminis (art. 2, comma 2, cod. pen.) o della «nuova incriminazione» (art. 2, comma 1, cod. pen.); un problema che, negli ultimi tempi, ha più volte impegnato la giurisprudenza(45). Prima, peraltro, di affrontarlo è il caso di tornare a interrogarsi in ordine all'effettiva necessità della nuova disposizione incriminatrice.

Ferma restando l'intervenuta riforma dei reati societari, occorre, in altre parole, chiedersi se, qualora la nuova norma fallimentare non fosse stata scritta, i "fatti" di cui alle disposizioni penali societarie, oggi in essa previsti, sarebbero stati, se causativi (o concausativi) del dissesto, puniti comunque a titolo di bancarotta fraudolenta societaria.

La risposta non può che essere affermativa dato che, come già si ha avuto modo di dire, il sistema della bancarotta fraudolenta societaria prevede una disposizione di chiusura, contenuta nell'art. 223, comma 2, n. 2, che punisce gli amministratori e gli altri organi societari che abbiano «con dolo o per effetto di operazioni dolose» cagionato il dissesto.

Non si ragionerebbe diversamente neppure se il legislatore delegato avesse optato per una abolitio , senza sovrascrittura, dell'art. 223, comma 2, n. 1. Anche in tal caso, invero, i fatti di cui alle disposizioni penali societarie richiamate nella norma abolita sarebbero, se causativi del dissesto, punibili ai sensi del n. 2 della medesima disposizione.

Non solo, almeno parte di essi, come si è detto sopra, quella parte che presentava caratteri di omogeneità con il bene giuridico protetto dalla bancarotta (si pensi alle citate figure di reato societario poste a tutela di capitale sociale e riserve, che tutelavano, direttamente o indirettamente, i creditori), avrebbe potuto integrare una delle condotte punite a titolo di bancarotta fraudolenta patrimoniale. Insomma, se vi fosse stata abrogazione senza sostituzione della norma incriminatrice della bancarotta da reato societario, oggi saremmo impegnati a chiederci se il fatto in concreto realizzato integri un'ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale o di causazione dolosa del dissesto. Detto questo, tornando al problema di diritto intertemporale, è di tutta evidenza che le considerazioni fin qui svolte avranno conseguenze rilevanti, ma solo una volta che sia stata individuata la soluzione del problema.

Si è detto nelle pagine precedenti che la nuova disposizione è speciale rispetto a quella, a contenuto generico, di cui al n. 2 dell'art. 223.

Va ora aggiunto che la nuova disposizione non è, invece, speciale rispetto alla vecchia. Deve escludersi, in altri termini, che vi sia rapporto di continenza tra la nuova e la vecchia fattispecie astrattamente considerate.

Applicando il criterio c. d. della continenza, non vi è dunque successione tra le due disposizioni perché la nuova non è pienamente contenuta nella fattispecie precedente e perché, inoltre, non ne amplia il contenuto.

L'orientamento della Suprema Corte

Alle stesse conclusioni si perviene applicando il criterio della omogeneità-disomogeneità strutturale al quale le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno dato la preferenza in materia di reati tributari(46). Gli elementi costitutivi delle due disposizioni incriminatici sono profondamente diversi. La vecchia fattispecie considerava presunta l'offesa dei beni giuridici tutelati, segnatamente l'interesse dei creditori alla salvaguardia dell'integrità del capitale sociale, non conteneva la previsione di un evento naturalistico, non richiedeva la sussistenza di un nesso di causalità tra il fatto, contemplato dalle disposizioni del Codice civile richiamate e il dissesto della società.

La nuova disposizione, invece, contempla un reato di danno, individua l'evento nel dissesto, richiede che i fatti abbiano cagionato il dissesto, amplia, di riflesso, l'oggetto del dolo.

A questo si aggiunga che alcuni dei fatti che integravano la precedente disposizione non sono stati più riproposti nella nuova (a mero titolo di esempio si citano i fatti di cui ai precedenti artt. 2622 e 2628 cod. civ.), la quale, per contro, contempla fatti non presi in considerazione dalla fattispecie precedente (sempre a titolo d'esempio possono citarsi i fatti di cui ai nuovi artt. 2633 e 2634 cod. civ.).

Senza contare, infine, che, in relazione a molti tra i fatti riproposti dalla nuova disposizione, sono intervenute, in seguito alla riforma dei reati societari, ponderose modificazioni; basti pensare alla false comunicazioni sociali, in relazione alle quali la dottrina e la prima giurisprudenza propendono per la discontinuità normativa(47).

In conclusione, sembra potersi affermare che vi è stata abolitio della vecchia disposizione incriminatrice e che la norma riscritta ha dato vita ad una nuova incriminazione.

La soluzione sembra difficilmente confutabile a fronte, tra l'altro, di situazioni in relazioni alle quali non poteva esservi dubbio di trovarsi in presenza di abolitio criminis o di una nuova incriminazione.

In particolare, era indubitabile che non vi fosse successione tra le due disposizioni ma abolitio criminis in relazione alle disposizioni penali societarie non più incluse nella nuova fattispecie fallimentare, vuoi per la disomogeneità di cui si è detto (come la divulgazione di notizie sociali riservate, l'aggiotaggio, l'impedimento del controllo della gestione sociale, l'illecita influenza sulla formazione della maggioranza assembleare) vuoi per l'intervenuta abolizione della fattispecie societaria (come nel caso dell'illegale distribuzione di utili non distribuibili per norma statutaria, dell'illegale ripartizione di acconti nei casi di cui alle lett. a) e c) del vecchio art. 2621, n. 3, cod. civ., del divieto di prestiti o garanzie su azioni proprie e via dicendo).

Così come non poteva dubitarsi di trovarsi in presenza di nuova incriminazione in relazione a quelle disposizioni ora incluse e che prima non lo erano (il pensiero corre, in particolare, alle nuove fattispecie di cui agli artt. 2632, con riguardo alla «sopravvalutazione rilevante dei conferimenti di beni in natura o di crediti ovvero del patrimonio della società nel caso di trasformazione», 2633 e 2634 cod. civ.) anche se, in tal caso, il problema si complica perché, come si è già detto e si ribadirà, i fatti di cui alle disposizioni anzidette potrebbero integrare operazioni dolose causative del dissesto, e quindi essere penalmente rilevanti ai sensi dell'art. 223, comma 2, n. 2. Le conseguenze della abolitio criminis , come quelle della nuova incriminazione sono a tutti note.

In proposito, per ora è sufficiente ricordare che, quand'anche il fatto concretamente realizzato nel vigore della norma abolita presentasse i requisiti necessari per integrare la disposizione sovrascritta, non sarebbe possibile, in pendenza di procedimento, contestare quest'ultima, consistendo essa in una nuova incriminazione destinata, come tale, ad applicarsi ai fatti commessi dopo la sua entrata in vigore(48).

Non sarebbe possibile, inoltre, rifiutare, in sede esecutiva, la revoca della sentenza di condanna ex art. 673 cod. proc. pen., sul presupposto che il fatto accertato dalla sentenza integrerebbe comunque la nuova incriminazione o una diversa fattispecie (di bancarotta o penale societaria) preesistente(49).

I problemi, però, non finiscono qui e lo dimostrano le considerazioni che si facevano all'inizio.

È il caso, in particolare, di concentrare la nostra attenzione sui procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della riforma.

Partiamo dall'ipotesi che il fatto in concreto realizzato non abbia cagionato, o concorso a cagionare il dissesto e che integri, pertanto, abolita la vecchia disposizione fallimentare, semplicemente un reato societario.

Si tratterà, dunque, di verificare la continuità normativa tra vecchia e nuova disposizione penale societaria.

Qualora la verifica conduca a ritenere sussistente il fenomeno della successione, il più delle volte non sorgeranno problemi di contestazione; non dovrebbe, in altre parole, essere necessaria una modificazione dell'originaria imputazione essendo il fatto, seppur all'interno di una più ampia fattispecie già stato contestato (il giudice può, in altre parole, senza necessità di contestazione suppletiva, procedere alla riduzione dell'imputazione in altra più ristretta, utilizzando, per la configurazione di altro titolo di reato, gli elementi residuali; in questa ipotesi, invero, al fatto contestato non si sostituisce e non si aggiunge nulla)(50).

Non è questa la sede per entrare nel merito dell'anzidetta verifica, raffrontando, una per una, vecchie e nuove disposizioni penali societarie.

È preferibile continuare a ragionare sul metodo, prospettando una seconda ipotesi, quella secondo cui il fatto in concreto commesso non abbia cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto, né integri un (o solo un) reato societario, ma realizzi una condotta di bancarotta fraudolenta patrimoniale impropria societaria ex artt. 216, comma 1, n. 1, e 223, comma 1. In tal caso, una modificazione dell'imputazione appare necessaria; deve, in altre parole, procedersi ad una nuova descrizione del fatto: il fatto è, invero, diverso da quello originariamente descritto qualora dagli atti emergano variazioni che modificano la fattispecie astratta ipotizzata o che, immutata questa, determinano mutamenti di elementi essenziali.

Qualora poi, in concreto, fosse stata contestata la circostanza aggravante della pluralità dei fatti, di cui all'art. 219, comma 2, n. 1, è possibile che la nuova descrizione, se non concerne il fatto più grave, riguardi la circostanza.

Vi è, infine, una terza ipotesi: che il fatto in concreto realizzato abbia cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto.

Se il fatto concreto, integra un'ipotesi di causazione dolosa del dissesto ex art. 223, comma 2, n. 2, deve forse affermarsi che la contestazione suppletiva ha ad oggetto un fatto nuovo. Per la sua ritualità è necessario, pertanto, il consenso dell'imputato; in mancanza di esso, il pubblico ministero dovrà esercitare ex novo l'azione penale.

Anche in tal caso, peraltro, potrebbe essere già stata contestata la circostanza aggravante di cui sopra si è detto; potrebbe, pertanto, essere possibile la contestazione della causa dolosa del dissesto come circostanza aggravante (verrebbe meno, in tal caso, l'esigenza di acquisire il consenso dell'imputato).

 

 

 

REATO societario

SANZIONE AMMINISTRATIVA A CARICO DELLA SOCIETA'/strong>

Art. 2621 cod. civ.: false comunicazioni sociali

Sanzione pecuniaria da 100 a 150 quote

Art. 2622, comma 1, cod. civ.: false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori

Sanzione pecuniaria da 150 a 330 quote

Art. 2622, comma 2, cod. civ.: false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori

Sanzione pecuniaria da 200 a 400 quote

Art. 2623, comma 1, cod. civ.: falso in prospetto

Sanzione pecuniaria da 100 a 130 quote

Art. 2623, comma 2, cod. civ.: falso in prospetto

Sanzione pecuniaria da 200 a 330 quote

Art. 2624, comma 1, cod. civ.: falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione

Sanzione pecuniaria da 100 a 130 quote

Art. 2624, comma 2, cod. civ.: falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione

Sanzione pecuniaria da 200 a 400 quote

Art. 2625, comma 2, cod. civ.: impedito controllo

Sanzione pecuniaria da 100 a 180 quote

Art. 2632 cod. civ.: formazione fittizia del capitale

Sanzione pecuniaria da 100 a 180 quote

Art. 2626 cod. civ.: indebita restituzione dei conferimenti

Sanzione pecuniaria da 100 a 180 quote

Art. 2627 cod. civ.: illegale ripartizione degli utili e delle riserve

Sanzione pecuniaria da 100 a 130 quote

Art. 2628 cod. civ.: illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante

Sanzione pecuniaria da 100 a 180 quote

Art. 2629 cod. civ.: operazioni in pregiudizio dei creditori

Sanzione pecuniaria da 150 a 330 quote

Art. 2633 cod. civ.: indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori

Sanzione pecuniaria da 150 a 330 quote

Art. 2636 cod. civ.: illecita influenza sull'assemblea

Sanzione pecuniaria da 150 a 330 quote

Art. 2637 cod. civ.: aggiotaggio

Sanzione pecuniaria da 200 a 400 quote

Art. 2638, commi 1 e 2, cod. civ.: ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza

Sanzione pecuniaria da 200 a 400 quote

N. B.: Se, in seguito alla commissione dei reati riportati nella prima colonna del prospetto, l'ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo.

 

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